venerdì 6 marzo 2009

... il Signore era con la musica


“…in pace con se stesso e con il mondo”.

Suggellavo così, nel maggio 2006, lo scherzoso profilo dell’alunno Alviti Francesco nel semiserio attestato di merito consegnato ai maturandi la sera del Prom.

Un’osservazione spontanea, ricordo, dettata da una certezza istintivamente consolidata in me nel corso dei tre anni in cui sono stata la sua insegnante di italiano e latino: un ragazzo che non conosceva liti e battibecchi, che non conosceva invidie, che non conosceva l’umiliante schiavitù del voto a tutti i costi, ma che apprezzava le mete raggiunte con fatica, le piccole conquiste di ogni giorno, che respirava a pieni polmoni e assaporava l’aria, le atmosfere, gli umori della classe, la “sua” classe.

E’ stato per i compagni “Alvitozzo” proprio perché, grazie alla sua personalità, mai è stato associato alla figura del vicepreside della scuola. Oggi comprendo che essere stata una sua docente mi ha penalizzata, mi ha forse tolto qualcosa di importante, di Francesco: mi ha tolto la spontaneità dei rapporti e delle frequentazioni, la franchezza dei giudizi, l’immediatezza di un abbraccio o di una semplice pacca sulla spalla.
La cosiddetta “professionalità” è indubbiamente un odioso “filtro”: la cattedra divide, alla fine, anche quando gli sforzi per unirsi vengono spesi da ambedue le parti, e la scuola di una cittadina di provincia è sempre una antipatica cassa di risonanza in cui è meglio non far risuonare note che possono essere fraintese. (Sorvoliamo sulla scuola in generale: è in grado, oggi, di capire veramente, valorizzare, aiutare ragazzi come Francesco?)

Almeno in questa circostanza, quindi, non voglio parlare da insegnante.
Ho nel cuore e nella mente delle immagini particolari, delle istantanee, quasi, di Francesco.

-La prima: lo conobbi quando, per tipico vezzo adolescenziale (era una moda di qualche anno fa), si era abbellito le chiome (si fa per dire…) con delle mèches biondastre, che non facevano certamente pendant con il suo bel volto da bruno ancora un po’ infantile, ma già serio e compìto. E’ il figlio di Pietro, mi dicevano le colleghe, sapessi quanto è intelligente ed educato. Ed era tutto vero, senza esagerazioni.

-La seconda: Francesco alle prese con il reinserimento nella classe terza del suo caro amico Emanuele. Il diavolo e l’acqua santa, in poche parole, ma quanta ammirazione nei suoi occhi dolci per quel guascone un po’ sfrontato che sarebbe diventato inseparabile da lui! Credo che si siano davvero voluti molto bene, credo che Francesco abbia visto nel compagno – con grande stupore – ciò che non era nelle sue corde, ciò che non faceva parte del suo “dna” familiare: un simpatico essere fuori dagli schemi, un osare in tutto, dai vocabolari opportunamente accessoriati (questo particolare divenne tra me e Francesco pretesto di divertita complicità) ai mirabolanti affari nel campo dell’abbigliamento.

-Terza istantanea: Francesco, già abbastanza grande, già carino e appetibile, forse un tantino innamorato di una bella compagna di classe, intento (ma non troppo attento) nel dividere la lettura di un unico libro, diventare rosso (emozione? caldo?) vicino a quella splendida minigonna di fine primavera.

-Quarta immagine: Francesco che, gioioso e maliziosetto, festeggia il mio imminente matrimonio attaccando in classe i “cardilli” di cartoncino colorato e partecipando, la sera, alla cena con i colleghi per supportare le performances declamatorie e musicali dei suoi compagni in mio onore!

-E ancora: Francesco che esalta le fettuccine della nonna strofinando la mano sulla pancia, Francesco che, tornato da un lungo viaggio, non riesce a riadattarsi al clima italiano (t-shirt di cotone in pieno inverno, tanto per capirci),
Francesco che ride a crepapelle anche per una sola battuta divertente dei suoi compagni, Francesco che entra in classe assonnato per aver trascorso la tarda serata a festeggiare l’ennesimo compleanno del neodiciottenne di turno…un sorriso indimenticabile, una risata sonora, diretta, senza censure, forse perché è stato un ragazzo che non ha mai censurato se stesso, la sua spontaneità, le sue emozioni.

E poi la malattia, con le sue poche, sfocate istantanee. Il suo coraggio, la sua forza e la mia vigliaccheria, il mio nascondermi dietro alla discrezione e dietro ai problemi familiari, seri anche questi, purtroppo.
Ci sono stati momenti in cui ho imprecato, in cui ho pensato di tutto, in cui ho cercato qualcuno o qualcosa contro cui scagliare la mia rabbia o indirizzare il mio grido di dolore (il disastro ambientale? l’acqua contaminata?) e, un attimo dopo, ho rivolto al Signore le mie più struggenti, fantasiose e puerili preghiere: “Fa’ che accada un miracolo…fa’ che possa accadere almeno un “miracolo laico”: un medico che lo salvi perché ha capito tutto della sua malattia, un ricercatore che scopra il medicinale che possa farlo vivere ancora a lungo…mio Dio, fa’ che possa stare ancora per qualche anno con i suoi cari…fa’ che non soffra…fa’ in modo che non senta dolore…fa’…”.
Ma Dio c’era, e io non lo sapevo.

Il Signore era con lui quando è morto da uomo, non da ragazzo.
Il Signore era con i suoi genitori quando non hanno scelto un appartato silenzio per sprofondare in un pozzo di sofferenza, ma hanno – ancora una volta – condiviso il figlio, un bene troppo grande per non meritare di essere donato anche agli altri (Pietro e Vittoria: quanto avete amato Francesco di un amore non egoista, non esclusivo, non avaro!).
Il Signore era con la nonna di Francesco, prostrata da una perdita contro natura, ma fiera e dignitosa; era con suo zio Antonio, che continuava a soddisfare con un sorriso malinconico le quotidiane richieste degli alunni del liceo; era con tutti i familiari addolorati, con tutti i ragazzi che lo hanno amato, assistito, coccolato e pianto.
Il Signore era con tutti noi che lo abbiamo salutato increduli, ma forti di un amore straordinario che ci ha riempito improvvisamente la vita.

E il Signore era con la musica, era la musica. Era nelle mani, nel fiato, negli occhi, nelle menti, negli animi di quei ragazzi pieni di talento che hanno dato vita a quella festa che – per chi crede davvero - ci è promessa al momento in cui nasciamo, e che attendiamo tutti con ansia, con trepidazione. Era nelle note che ci scavavano dentro, che scioglievano i lacci delle nostre resistenze, che affievolivano il nostro tremendo senso di colpa per essere ancora vivi, che ci scaldavano, ci dissetavano, ci sfamavano, che ci facevano sentire ricchi.

Francesco ci ha voluto bene, ha voluto il Bene.
Francesco ci ha insegnato che solo l’amore e l’arte possono ancora salvare l’uomo.

DANIELA MARRO

5 commenti:

Anonimo ha detto...

troppo bella

Unknown ha detto...

si è troppo bella perchè questi pensieri sono pregni di verità e la luce della Verità è un dono non a tutti concesso.grazie signora Marro per avercene reso parte

bizio ha detto...

cara prof, i suoi quadri sono oggettivamente belli e perfetti nel loro contenuto...
Lei lo a visto da dietro la cattedra... io l'ho visto da fratello, gli altri lo hanno visto da amici... ma sono sicuro che tutti siano d'accordo con il suo pensiero... francesco era un ragazzo speciale...

Anonimo ha detto...

good start

Anonimo ha detto...

good start